“Non confondete la comprensione con un vasto vocabolario. Le Sacre Scritture sono utili per stimolare il desiderio di realizzazione interiore, se si assimila lentamente un versetto alla volta. Altrimenti, un continuo studio intellettuale può avere per risultato la vanità e la falsa soddisfazione di un sapere non digerito.”
Così si rivolse Sri Yukteswar ai suoi discepoli. Egli riportò un’esperienza vissuta con un suo Maestro, Dabru Ballav. Quest’ultimo radunò attorno a sé i suoi allievi e in silenzio aprì la Bhagavad Gītā (la Bhagavad Gītā è la parte finale del Mahabharata , poema epico indiano) Tutti fissarono un brano per mezz’ora, poi chiusero gli occhi. Un’altra mezz’ora trascorse. Il Maestro fece un breve commento e i discepoli, immobili, meditarono per altri trenta minuti. Finalmente, Dabru chiese:
Avete capito?”
“Si, signore”, qualcuno osò dire.
Alla fine, si rivolse a Sri Yukteswar:
“E tu? Conosci la Bhagavad Gītā?”
“No, signore. Non la conosco veramente, sebbene i miei occhi e la mia mente abbiano percorso molte volte le sue pagine”.
“La saggezza”., disse il Maestro, “non si assimila con gli occhi, ma con gli atomi”.
Ripetere i testi sacri a memoria senza rielaborarne il contenuto è come parlare in maniera meccanica di arte o poesia, con la presunzione di essere, a propria volta, artisti o poeti. Senza presenza mentale, capacità di discernimento, consapevolezza, ma, soprattutto, senza voglia di imparare e senza umiltà non si arriva da nessuna parte, fermo restando che la conoscenza non ha un punto d’arrivo. Il vero Ricercatore, in realtà, scopre l’umiltà durante il cammino, perché è proprio quando impara che comprende di non sapere (Socrate docet). Più impara, più diventa umile. La profonda ricerca non ha come scopo il teatro della mente, dove lo sfoggio di cultura viene magnificato davanti a un pubblico plaudente, tutt’altro, la conoscenza si trasmette innanzitutto con la propria vita, mediante un linguaggio umile e semplice e mediante i gesti amorevoli di chi desidera veramente parlare al cuore della gente. Tutto il resto, è pura vanità. Un giorno mi recai ad una cerimonia dove la persona che conduceva sapeva cantare i Veda a memoria (un’antichissima raccolta in Sanscrito di testi sacri). Notevole, pensai. Davanti a lui una trentina di persone. Credo che non le abbia viste. Concentrato sulla sua performance dimenticò di avere davanti degli esseri umani che cercavano, attraverso la meditazione e un ambiente gradevole, un po’ di pace. Non vide le lacrime, non vide gli occhi smarriti in cerca di aiuto, non vide gli occhi sereni di altri, non vide me che osservavo la scena. Cantò per se stesso. Era il suo momento di gloria. Non dedicò nemmeno un attimo alle persone che erano venute ad ascoltarlo e che avevano gli occhi pieni di domande. Non c’era tempo per le domande, che sono la parte più importante dell’incontro, ma ripeteva meccanicamente delle parole di cui non conosceva il significato. La ripetizione meccanica di frasi ed espressioni offerte da altri toglierebbe autenticità anche al più grande ed erudito discorso. Le parole altisonanti hanno fatto di lui un personaggio, ma non una persona. Per avere un buon prodotto, quindi, sono necessari gli ingredienti giusti: conoscenza e umiltà.
“Ho imparato il pensiero di Socrate, di Yogananda, di Sri Yukteswar e di molti altri, ma non ho ancora imparato a pensare.”
Queste parole mi sgorgarono dal cuore in una notte di sconforto quando, in preda a forti entusiasmi, divoravo libri senza digerirli. Avevo fame e sete di sapere ma il desiderio di placare le mie inquietudini non faceva altro che alimentarle a dismisura. La mente, così come il corpo, ha bisogno di un’alimentazione varia, ma ero una bambina e volevo tutto e subito. Non durò a lungo. Capii molto in fretta che non era quello il modo, poiché il mio essere continuava a soffrire più di prima e a nulla gli giovava il mio sapere mentale. Rilessi più volte il passo sopra citato e cominciai da lì il mio percorso, rinunciando all’infantilismo emotivo. Mi costò molte tempeste e mi sbucciai le ginocchia più volte, ma questo mi aiutò a comprendere che cosa mi serviva veramente per parlare con la gente. A volte ci contattano delle persone che vorrebbero insegnare allo Studio Gayatri e, prima ancora di ricevere qualunque domanda da parte nostra, iniziano a fare sfoggio di titoli acquisiti negli anni o di testi antichi il cui significato risulta per loro ancora molto nebuloso. Sorrido… e spiego loro che non è quella, la conoscenza che cerco: “non mi interessano i sacri testi recitati a memoria, mi interessa che tu li abbia vissuti e respirati, che ti scorrano sulla pelle e nelle vene, mi interessa che tu li voglia condividere, non con la brama vorace e infantile di un ego recalcitrante bensì con la consapevolezza di chi capisce che la vita è un mistero prezioso da scoprire. Mi interessa trovare il cuore nelle tue tasche, non solo un pezzo di carta.” Mi raccolgo… e ripenso al mio cammino… (o, per meglio dire, ai miei lavori in corso): ho trovato la saggezza nei contadini che hanno imparato la gioia e il dolore dalla terra e dagli alberi. Ho respirato la sapienza dalle donne che hanno ascoltato la vita attraverso lo scorrere dei fiumi e dai bambini che mi hanno insegnato la semplicità e il potere dell’immediato. Sono cresciuta cercando di rubare i segreti alla natura e poi ho litigato con Schopenhauer, Platone, Krishnamurti e Vivekananda. Continuo a farlo, ma questa volta aspetto anche le risposte. A volte qualcuno mi chiede se, secondo me, sta percorrendo la strada giusta. Non lo so… ma se non ti batte forte il cuore, fermati e ascolta ….
surya