Nel nostro cervello ci sono dei sistemi in grado di regolare la percezione del dolore. Per esempio, la percezione del dolore in una situazione di riposo è diversa rispetto a quella in una situazione di stress. In uno stato di tensione la soglia del dolore aumenta e quindi l’intensità con cui percepiamo uno stimolo dolorifico diminuisce. Questo fenomeno viene chiamato analgesia da stress ed ha un chiaro e profondo significato evolutivo. Un esempio tipico è quello di una preda che, quando viene colpita, non si ferma a leccarsi le ferite ma cerca piuttosto di scappare dal suo predatore e di raggiungere un posto sicuro. Solo allora sentirà il dolore e si leccherà le ferite. Il fine evoluzionistico qui è molto chiaro: in certe situazioni sentire dolore è dannoso per la sopravvivenza. Una situazione di stress è in grado quindi di attivare dei sistemi endogeni che inibiscono la trasmissione del dolore. Lo stress è una risposta di adattamento all’ambiente, ci serve per ristabilire un nuovo equilibrio utile alla sopravvivenza e non ha di per sé una valenza negativa. Hans Selye, Neuroendocrinologo, ne diede una prima spiegazione scientifica nel 1936. Egli lo definì “una risposta aspecifica a qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente”, dove per aspecifica si intende non riconducibile a una sola causa. Quando, dunque, diventa veleno per il nostro corpo? Selye definì tre fasi dello stress.
All’inizio c’è la fase di allarme, durante la quale l’organismo mobilita tutte le sue difese utilizzando dei meccanismi, quali, per esempio, l’aumento del battito cardiaco o la sudorazione eccessiva.
Quando però lo stress persiste si entra nella fase di resistenza, dove c’è un’eccessiva produzione di cortisolo e, se non si interviene, ne veniamo sopraffatti entrando nella terza fase, cosiddetta di esaurimento.
In questo contesto ricordiamo che le relazioni interpersonali hanno una grande importanza.
Noi non possiamo prescindere dal fatto che siamo animali sociali. Pensate che più bassi sono il livello culturale, il livello d’indipendenza economica e il ruolo occupato nella vita sociale, e maggiore è la possibilità di ammalarsi. Addirittura, chi ha più relazioni sociali ha anche maggiori capacità di affrontare la malattia stessa.
In poche parole, l’integrazione sociale è statisticamente correlata a un buono stato di salute, poiché aumenta la capacità di fronteggiare le sfide e, quindi, di sopravvivere. Unirsi a persone che ci aiutano a far emergere le nostre qualità, che ci fanno ridere, persone con le quali possiamo condividere i nostri interessi, stimola le endorfine del buonumore e ci porta emozioni positive. Selye diceva che è un antidolorifico naturale.
Stare insieme, dunque, fa bene e ci permette di sviluppare una maggiore salute psicofisica. Facciamone tesoro!!!