Nel 1948 Aaron Friedell (Minnesota Medicine) condusse il primo studio pubblicato in occidente riguardo la terapia yogica, in specifico
sugli effetti benefici di “una respirazione attenta” in 11 pazienti affetti da angina. La tecnica utilizzata fu appresa nel 1927 da Yogananda
e venne poi implementata con larespirazione “Nadi Sodhana”, ovvero a narici alterne. I pazienti, che soffrivano di dolori al petto e fiato
corto, notarono un deciso miglioramento. Non appena avvertivano iprimi segnali di un attacco di angina pectoris iniziavano la tecnica di
respirazione e, nella maggior parte dei casi, erano in grado di superare in breve il momento critico.
È del 1983 uno studio di Dean Ornish, pubblicato sul Journal of the American medical Association, che monitora gli effetti beneficidi un programma di yoga completo (Asana – Pranayama – visualizzazione – meditazione e rilassamento profondo), comprensivo di uno stile di vita sano (dieta povera di grassi, esercizio fisico aerobico e niente fumo). I pazienti dovevano frequentare incontri con cadenza regolare e seguire la dieta e il programma di yoga. Dopo un anno i livelli di LDL (colesterolo cattivo) erano scesi da una media di 114 a 87 senza ausilio di farmaci e le crisi di angina erano meno frequenti e meno gravi. Nel 1998 la prestigiosa pubblicazione scientifica Lancet pubblicò uno studio di Luciano Bernardi su pazienti affetti da problemi respiratori causati da insufficienza cardiaca congestizia. Negli stadi avanzati della malattia i fluidi accumulati nei polmoni compromettono la normale ossigenazione, causando al paziente una sensazione di soffocamento. La reazione è di agitarsi e quindi respirare sempre più in fretta e in modo più superficiale così che l’apporto di ossigeno nel sangue diminuisce. Con la tecnica di una “respirazione completa” per un mese, i pazienti sono passati da una media di 13,4 respiri al minuto a 7,6; inoltre, è migliorata la loro capacità di esercizio fisico e di saturazione di ossigeno nel sangue. Il Journal of the American medical Association pubblicò nel 2003 i risultati (parziali) di uno studio multicentrico di Dean Ornish. Lo studio, tuttora in corso, coinvolge oltre 2000 pazienti e i risultati sono incoraggianti: abbassamenti significativi del colesterolo, della proteina C reattiva, del glucosio e della pressione sistolica e diastolica.
Dopo un anno i risultati sono rimasti invariati e risultati significativi si sono registrati anche nella qualità della vita e negli indicatori di depressione. Il Corriere della Sera nel 2006 pubblicò un’intervista a Luciano Bernardi, professore associato presso il Dipartimento di MedicinaInterna dell’Università di Pavia che ha eseguito numerose ricerche sull’interazione fra pratiche yoga, sistema respiratorio e sistema cardiovascolare . “Chi soffre di scompenso cardiaco presenta a volte anche alterazioni del sistema neurovegetativo caratterizzate da un aumento del tono simpatico a scapito di quello parasimatico. In questi casi lo yoga può aiutare, comunque la valutazione va fatta con il proprio medico…
Il cervello, in base alle informazioni inviate dai sensori, regola in modo coordinato sia i gas nel sangue che i livelli della pressione arteriosa agendo su due leve fondamentali: il sistema nervoso e il nervo vago. Per esempio, se la pressione arteriosa è troppo bassa, il sistema nervoso centrale attiva il simpatico e aumenta il ritmo del cuore, che così pompa più sangue, costringe i vasi, fa salire la pressione ed inoltre aumenta anche la ventilazione. Se invece la pressione è troppo alta, viene attivato il vago con effetti opposti.
Talvolta questi sensori non funzionano come dovrebbero a causa di malattie cardiovascolari, respiratorie, di disturbi d’ansia e di tipo comportamentale. Le ricerche condotte hanno evidenziato come la pratica dello yoga rendendo più efficiente la respirazione, alleni il cervello a
tollerare elevati livelli di anidride carbonica, incrementi il tono vagale provocando un rallentamento del battito ed una vasocostrizione coronarica, con effetti calmanti e, al tempo stesso, regoli i livelli di cortisolo, adrenalina e noradrenalina ovvero gli ormoni dello stress”.